Quale tipo di approccio è meglio usare con un potenziale cliente?
Ci sono due modi di parlare con un potenziale cliente per convincerlo a comprare i nostri servizi di web design. Il primo è quello più usato, che punta tutto (o quasi) sulle competenze, sulla propria capacità di fare un buon lavoro. Il secondo, invece, è meno frequente e fa leva sulle emozioni del cliente.
Per semplicità espositiva, indichiamo il primo come metodo dell’approccio tecnico e il secondo come metodo dell’approccio emotivo. Quale sia più conveniente sul piano delle conversioni, ovvero, chi tra i due porta più clienti e quindi più soldi, è una cosa che cercheremo di capire in quest’articolo.
Metodo dell’approccio tecnico
Di tanto in tanto si vedono in giro delle email che suggeriscono al destinatario di cambiare il proprio fornitore di servizi web e di affidarsi a chi le scrive.
L’autore del messaggio dice di essersi trovato per caso sul sito, di avere dato una sbirciatina al codice delle pagine e di essersi imbattuto in una serie di errori o anomalie che lui sarebbe in grado di risolvere o di fare meglio.
Questo tipo di messaggio autopromozionale normalmente ha un tasso di conversione molto scarso, quasi pari a zero. Il che implica l’inefficacia di una strategia che evidentemente punta ad acquisire clienti, senza riuscirci. Le ragioni sono intuibili, e potremmo fare un lungo elenco di ciò che non funziona, partendo dal fatto che sono messaggi non-richiesti (spam).
Tuttavia, seppure il destinatario avesse una certa disponibilità ad ascoltare i suggerimenti di chi scrive e fosse talmente comprensivo da non badare all’incursione spammosa di cui è vittima, sarebbe ugualmente insensibile al messaggio per via del suo contenuto.
Di cosa parlano, infatti, i messaggi autopromozionali? Di errori tecnici, di codice non semantico, non validato, non ottimizzato per i motori di ricerca etc.. E lo stesso si può dire per il contenuto di una sessione di primo contatto su skype.
È l’approccio tecnico, un metodo che spinge a parlare di div, tag, tabelle, headline, jQuery, Javascript. E poi di HTML5, CSS3 e di altre bellissime sigle o tecniche di sviluppo che potrebbero allietare le giornate più grigie di un web designer annoiato, ma che alla fine mettono fuori ascolto il nostro interlocutore.
L’approccio tecnico distrugge ogni possibilità di comunicare in modo efficace, creando una sorta di asimmetria tra la sensibilità di chi offre le informazioni e la sensibilità di chi le riceve.
Non sto dicendo che sia sbagliato parlare anche di problemi tecnici, se il livello e il tipo di conversazione lo richiedono. Ciò che sto dicendo è che la comunicazione funziona quando chi la riceve ha capito di cosa stiamo parlando.
Al paziente che accusa problemi di stanchezza serve un medico che sappia dare l’informazione giusta con un linguaggio comprensibile. Se il medico parla solo di cardiomiopatia idiopatica crea una barriera tra lui e chi gli sta di fronte.
È il linguaggio tecnico, d’accordo. Ma se condividiamo l’idea che tra il medico e il paziente debba esserci una comunicazione, allora siamo d’accordo anche sul fatto che oltre all’esibizione delle proprie competenze debba esserci un frasario di servizio che possa aiutare la gente ad ascoltare con interesse e a capire il senso del messaggio.
A proposito, la cardiomiopatia idiopatica è quella situazione che si verifica quando hai un problema al cuore ma non si sa ancora quale.
Su quest’argomento consiglio di leggere il prima possibile un libro straordinario dei fratelli Chip e Dan Heath, dal titolo Idee Forti (ed. ETAS). Io l’ho letto più di una volta. E ho imparato che siamo spesso vittime di una maledizione che ci domina senza farcene accorgere. È la maledizione della conoscenza.
Affinché un messaggio vada a destinazione bisogna passare attraverso due fasi:
- La fase della “Soluzione”
- E quella del “Comunicarla agli altri”
Nella fase della Soluzione, usiamo la nostra competenza per giungere all’idea che vogliamo trasmettere. I medici studiano anni per acquisire la capacità di dare una soluzione. E i web designer, allo stesso modo, offrono soluzioni sulla base di lunghi anni di formazione ed esperienza.
Ed è qui che si innesta la maledizione. Quegli stessi fattori che ci procurano un vantaggio nella fase della Soluzione diventano problematici nella fase del Comunicarla agli altri.
Noi sappiamo cose che gli altri non sanno e non possiamo ricordarci di come eravamo quando non le sapevamo. Ed è per questo che quando offriamo la Soluzione, tendiamo a comunicarla come se il nostro pubblico fosse composto da noi stessi.
Sempre i fratelli Heath ci semplificano questo concetto con l’analisi di un gioco. È il gioco dei tamburellatori. E funziona così: da un lato ci sto io, per esempio, che sono il tamburellatore. E dall’altro ci mettiamo Nando Pappalardo, che è l’ascoltatore.
Il mio compito, in questo gioco, è scegliere una canzone, un motivetto musicale da riprodurre in presenza dell’ascoltatore. Il compito di Nando, invece, è quello di indovinare il titolo della canzone. Ah, dimenticavo: l’unico modo che ho a mia disposizione per riprodurla – e aiutare Nando a capire – consiste nel tamburellarla ritmicamente con le dita sul tavolo. Vinciamo se Nando indovina.
Ora, posto che la mia canzone è “What a Wonderful World” di Louis Armstrong, un evergreen facile da riconoscere, e che sono molto bravo a tamburellare un ritmo sul tavolo con le mie mani, riuscirà Nando a indovinarla? E in quanto tempo?
Il fatto è che per me che la sto pensando non c’è niente di più facile, perché la sento nella mia testa. Sento il motivo e riproduco il ritmo fedelmente. Ma per Nando è diverso. Lui non sente ciò che sento io. Anzi, tutto ciò che riesce a sentire lui è solo un insieme di colpi sconnessi che potrebbero significare qualsiasi cosa.
La verità è che non è facile per me – tamburellatore – aiutare Nando, perché sono in possesso di una conoscenza (il titolo della canzone) che mi rende impossibile immaginare che cosa si prova a non possederla.
Questo è l’effetto della maledizione della conoscenza. Questo è ciò che succede, anche senza accorgercene, quando parliamo con un nostro potenziale cliente con il metodo dell’approccio tecnico.
Metodo dell’approccio emotivo
Richard Bandler, co-developer della Programmazione NeuroLingiustica (PNL), in uno dei suoi libri sul potere della persuasione, dal titolo Persuasion Engineering, racconta di un venditore che, assieme a una coppia di possibili acquirenti, stava per entrare in una casa in vendita. Lui girò la chiave nella toppa e spinse l’uscio in avanti. Ma più spingeva e più la porta scricchiolava rumorosamente.
Il venditore impallidì, pensando di avere a quel punto compromesso la vendita. Quel rumore proprio non ci voleva. Tentò di rimediare, di giustificarsi, promettendo che l’avrebbe fatta riparare il prima possibile. Ma successe qualcosa di inaspettato.
La signora fu colpita da quel rumore e disse: “Cos’è questo scricchiolio?”. E per un paio di volte riaprì e richiuse la porta. Poi aggiunse, rivolgendosi al marito: “Amore, non senti? È lo stesso scricchiolio di casa nostra. Non so te, ma io sento che questa è la casa giusta. Mi sento a casa!”.
Contrariamente a quello che temeva il venditore, la coppia decise di acquistare quella casa grazie al cigolio della porta, ovvero, grazie a un’emozione, al ricordo di un’esperienza pregressa di grande impatto emotivo.
Una delle verità più acclarate di questi ultimi anni, in cui il marketing ha cercato e trovato aiuto nelle neuroscienze, è che le persone comprano con il cuore. Chi compra una casa non compra i mattoni o le mura, ma l’idea di stare in giardino con il barbecue, di passare una serata con gli amici a giocare a poker o a vedere la partita, di avere uno spazio per il bricolage, di vedere i propri figli sistemati in camere belle e spaziose.
E qui ci ricolleghiamo al discorso che abbiamo fatto l’altra volta a proposito del fatto che i clienti non acquistano prodotti o servizi, ma ciò che ricavano dai prodotti e dai servizi.
Molti credono di compiere delle scelte razionali, costruite con una buona logica. Ciò che invece succede realmente è che alla base di ogni decisione di acquisto c’è sempre una spinta istintuale, emotiva, quasi compulsiva, seppure controllata.
Non sono un neuro-scienziato. E ciò che conosco della materia l’ho letto sui libri da semplice appassionato. Ma ciò che ho capito è che le decisioni nascono dal basso, nella zona che gli esperti chiamano cervello omeostatico o rettiliano, e fluiscono verso l’alto, attraversando i vari strati della nostra mente.
Nell’immagine qui sotto si capisce meglio di cosa sto parlando.
Il viaggio delle decisioni, se posso azzardare una metafora un po’ strampalata, è come la corsa di allenamento di Rocky Balboa, che esce di casa da solo e arriva sulla cima della famosa scalinata dell’Art Museum di Philadelphia con una folla di sostenitori che lo segue.
Gli impulsi decisori si comportano in modo analogo. Prendono vita alla base dell’encefalo e si avviano verso l’alto, nella zona neocorticale, passando per i meandri del cervello limbico e paralimbico, dove risiedono le emozioni e i ricordi. Strada facendo, incontrano milioni di sinapsi che interagiscono con l’istinto e lo trasformano in una decisione a tutti gli effetti.
È affascinante tutto questo. Non è vero? Ma noi dobbiamo semplificare. E allora usiamo il linguaggio del marketing, secondo cui le persone comprano con il cuore e solo in un secondo momento elaborano pensieri razionali per giustificare la scelta.
Il metodo dell’approccio emotivo non esclude categoricamente che ci possano essere alcuni brevi passaggi tecnici, ma richiede che ci sia una prevalenza di argomentazioni emozionali. Si tratta di modificare la struttura dei contenuti, di sostituire la causa del beneficio con il beneficio medesimo.
Per esempio, la tecnica degli sprites CSS permette di ridurre le richieste HTTP della pagina, velocizzandone di conseguenza il caricamento. Questa è l’informazione nuda e cruda che un web designer darebbe al suo potenziale cliente. Per lui, il fatto di velocizzare il caricamento delle pagine è già di per sé una Soluzione di tutto rispetto. È la canzone che sente nella sua testa.
Le soluzioni, però, sono apprezzate quando risolvono un problema. E ho buone ragioni per pensare che il potenziale cliente medio ignori completamente l’esistenza di un problema. Dunque, è probabile che il suo cervello rettiliano non reagisca allo stimolo. Non riceva gli impulsi di allerta e non attivi la corsa di Rocky Balboa.
Proviamo invece a sostituire la causa del beneficio con il beneficio medesimo.
È stato dimostrato che il navigatore si spazientisce facilmente. Se il sito non risponde entro 7/10 secondi, l’abbandona senza pensarci più di tanto. Jakob Nielsen ha spiegato che il ritardo di apertura di un sito non solo crea automaticamente un’associazione negativa con il brand, ma riduce le vendite (ai clienti meno coinvolti) di almeno il 50%.
Ecco la prima giusta informazione che procura uno stato di allerta al nostro potenziale cliente.
La seconda riguarda il posizionamento nei motori di ricerca. Sappiamo che i siti lenti vengono penalizzati nei risultati. E ciò che non viene mostrato da Google e dagli altri motori semplicemente non esiste. Il che significa poco traffico organico e, ancora una volta, poche vendite… e pochi guadagni.
A questo punto, è chiaro ciò che sto cercando di suggerire. Si può parlare degli sprites CSS, di codice semantico e di ogni altra tecnica moderna di HTML. Ma le decisioni di acquisto partono dal basso, dal tronco dell’encefalo. E per questo servono argomenti capaci di procurare stati d’allerta.
È il metodo dell’approccio emotivo. Fa leva sui bisogni istintuali, quelli veri del cliente, e non su ciò che essi credono di sapere.
Conclusioni
Come ho già scritto altre volte, non credo nelle soluzioni pre-confezionate universalmente valide. Ogni cliente è una storia a sé. E questo ci impone di rapportarci al suo mondo specifico – e non a quello astratto del target al quale potrebbe teoricamente appartenere – con un armamentario di idee, concetti, soluzioni e parole foggiati su misura per i suoi bisogni.
Il metodo dell’approccio tecnico mostra alcune debolezze legate all’aspetto comunicazionale. Opera a un livello più alto di elaborazione delle scelte, in una fase in cui le decisioni non sono la trasformazione di un impulso rettiliano, non hanno la caratura di un’elaborazione robusta e stratificata. E per quanto strano possa sembrare, sono gli impulsi rettiliani evoluti che fanno muovere il mondo.
Il metodo dell’approccio emotivo, invece, opera al livello del tronco encefalico, dove il cervello dell’uomo semplifica ogni cosa a favore di se stesso. Un impulso che parta da questo livello, se non viene contrastato durante il percorso da fattori emotivi o da forti valutazioni di tipo razionale, può sfociare in grandi scelte, risolute e ferme.
Ma anche qui ci sono delle criticità, soprattutto riguardo all’uso del metodo. Il rischio è che si possa abusarne e provocare effetti indesiderati.
Non dimentichiamo che le persone hanno bisogno di giustificare le loro scelte di cuore. Hanno bisogno di girarsi intorno e racimolare una sufficiente quantità di buone ragioni per convalidare le scelte. E respingere in questo modo ogni eventuale sentimento di acquisto incauto.
Se puntiamo tutto sull’approccio emotivo, offrendo un terreno privo di appigli tecnici e razionali, le probabilità che possano emergere sensi di colpa sono elevate.
Forse, come sempre, in medio stat virtus. Una buona dose di argomentazioni emotive, adeguatamente combinata con le giuste informazioni tecniche, potrebbe dare alla luce un modello interessante da sperimentare nella comunicazione con un potenziale cliente.
E tu cosa ne pensi? Preferisci l’approccio tecnico? Emotivo? O sei come me e opti per una soluzione più shakerata?
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