Torniamo con i piedi per terra
Marketing e design, lavoro sinergico quando si tratta di creare il marchio di un’azienda, quanto di più importante esista dopo i soldi degli investitori per un’impresa. Storie, ragioni ed evoluzioni di alcuni tra i marchi più famosi del mercato.
Torniamo con i piedi per terra, almeno per ritrovare un piano d’appoggio sul quale poter far leva e spiccare nuovamente un balzo verso quanto di “praticamente astratto” esiste circa design e marketing.
Intratteniamoci, frattanto, lungo una delle tante terre condivise e dal design e dal marketing o dove, meglio, l’uno si mette al servizio dell’altro e l’altro stimola l’uno ad evolversi, trovare soluzioni sempre più efficaci e sempre più innovative, in grado di creare nuove tendenze, creando consenso e seguito.
Parliamo di quel che di più importante esiste, in una società, dopo i soldi degli investitori: il marchio, o come più convenzionalmente viene chiamato da chi butta un po’ d’inglese perché fa molto “Financial Times”, il brand dell’azienda.
La vera concorrenza, quella spietata, sappiatelo, non si combatte in catena di montaggio od in laboratorio di ricerca, ma sugli scaffali espositivi dove, a pochi centimetri di distanza, se non appaiati, stanno prodotti i cui marchi, avessero vita, farebbero volentieri a cazzotti. Là si combatte, là si vince. La ragione è semplice, ogni innovazione o miglioria al prodotto, frutto di ricerche & affini, a nulla serve se il consumatore non la percepisce, non ne viene a conoscenza. Lo stesso dicasi per quel che avviene in catena di montaggio, come ad esempio il controllo qualità. L’essenza che si trasmette attraverso l’apparenza, ecco da qui certamente appare più motivata l’asserzione iniziale circa la crucialità della scelta di Nome – Logotipo e Marchio dell’azienda.
Video 1 – Guerra pubblicitaria tra Coca-Cola e Pepsi
Nome è la denominazione dell’azienda, logotipo è la maniera grafica di scrivere il nome, ed il marchio è invece un’immagine riassuntiva dell’azienda, come la fotografia nella carta d’identità.
E’ spesso il prodotto “cardine” (core business), od il prodotto col quale l’azienda si lancia sul mercato prima di diversificare la produzione ad influire sul design del logo aziendale. Un esempio ne è l’Algida, adesso marchio dell’Unilever, che dopo essersi inserita sul mercato col primo gelato industriale prodotto in Italia, ovvero il “Cremino”, ha trovato l’exploit col “Cornetto – Cuore di Panna”, tanto da riprendere la tematica del “Cuore” modificando il proprio logo originale in tal senso. Attenzione qui anche alla denominazione, Algida deriva da algido, freddo, parola che in periodi ribollenti come l’estate ha il suo appeal.
Le strategie dietro la scelta del brand sono complesse ed audaci per la natura stessa degli affari e per l’aleatorietà della risposta del pubblico. Una prima regola, che potremmo elencare, la ritroviamo proprio nella scelta dell’Algida di adeguare il proprio logo al prodotto di punta. Dopo aver “sfondato” il mercato, raccogliendo consensi, il “Feed” (fiducia) che i consumatori nutrono nei confronti dell’azienda viene collegato, dalla stessa, sugli altri prodotti con un rimando diretto a quel prodotto di punta, e ciò, nel caso dell’Algida, avviene proprio attraverso il brand. Se avete letto almeno un Topolino, bevuto Aquarius, Fanta o Sprite ecco la riprova che questa strategia funziona.
Oppure, il brand, piuttosto che le caratteristiche di un singolo prodotto va a rappresentare la vocazione dell’azienda in questione, riassumendone le caratteristiche base.
Vedere ad esempio la FIAT, che altro non è “Fabbrica Italiana Auto Torino”. Senza dover ricorrere agli acronimi, da annettere a questa categoria sono marchi come Alitalia (compagnia aerea italiana), e Gazprom (fornitura di gas) che oltre al richiamo nel nome agiscono anche sul design del proprio logotipo per richiamare la natura dei servizi forniti; in quello di Alitalia la A (che diviene il logo dell’azienda) richiama la forma della deriva di coda e riprende i colori della bandiera italiana, in quello di Gazprom è presente una fiamma, dove il colore trae rimando da quello generato proprio dalla combustione del gas naturale, che la compagnia estrae.
Ci sono poi casi nei quali è il nome del produttore a comparire come nome del prodotto fino a diventarne metonimia. Impossibile non mettere a capo di questa categoria la catena di fast-food Mc Donald’s. La ragione di questa scelta sta nel creare un filo più diretto col consumatore, metterci la faccia e il nome per infondere fiducia, non a caso tale strategia è utilizzata soprattutto nel campo dell’abbigliamento, della ristorazione e dei prodotti alimentari; rimanendo in Italia abbiamo esempi come Barilla, Poiatti, Ferrero, Amadori, Rana.
Lo stesso ragionamento adottano le compagnie che si occupano direttamente o indirettamente di sicurezza, come la Beghelli, in Italia, o la Michelin, azienda produttrice di pneumatici che, conferendo stabilità alle autovetture, ne garantiscono la sicurezza. Richiamo importante, sulla Michelin, è il marchio, Bibendum (derivante dallo slogan utilizzato ad inizio XX secolo, “nunc est bibendum”, trad. “il pneumatico beve l’ostacolo”) che italianizzato diviene “omino michelin”.
Questo personaggio, disegnato con le forme di più pneumatici accatastati, andrebbe studiato dai grafici pubblicitari come un medico l’anatomia. Oltre a render lampante l’importanza d’un marchio riconoscibile ne lega la riconoscibilità alla peculiarità, conferita a sua volta da una sensata stramberia quale appunto un uomo fatto di camere d’aria di pneumatici è.
Stramberia sensata come il cane a sei zampe dell’AGIP, acronimo di Azienda Generale Italiana Petroli, o Mastro Lindo, e la sua pelata sbrilluccicante (non a caso), o L’Omino Bianco, non a caso di carnagione scura, Capitan Findus od il misterioso ragazzino sulle confezioni della Kinder.
Personaggi che entrano nel quotidiano delle famiglie attraverso tubo catodico ed etichette sui prodotti, indice di penetrabilità e condizionamento altissimo, ci si affeziona addirittura fino quasi a far sembrare un tradimento cambiar il prodotto col concorrente; ricordate Calimero? Nasce come testimonial per i detersivi Mira Lanza, ai tempi di Carosello, e diviene cartone animato di popolarità infinita.
Video 2 – Calimero nasce in Carosello
E’ tutta strategia, nulla è lasciato al caso, nemmeno la forma o i colori delle confezioni o la disposizione e la grandezza del logotipo e del marchio. Perché gli ingredienti di un prodotto sono sempre messi in un cantuccio, scritti in mini – minuscolo? Il messaggio è “Importa Cosa, non Con cosa”. Fanno eccezione una serie di prodotti, tra i quali parecchi medicinali, che riportano la molecola base del farmaco come nome dello stesso. E se la Coca-Cola fu pensata originariamente come un farmaco, anche questa va elencata qui.
Esistono anche nomi di prodotti studiati per esser forieri d’un messaggio pubblicitario vero e proprio, come Super Attack (colla), Lucky Strike (sigarette), Clear (shampoo), Volkswagen (trad. macchina del popolo) Vanish (detersivo), il cui slogan “fidati del rosa”, va legato a quanto detto nel paragrafo precedente circa l’accuratezza dei particolari, anche minimi, nei quali s’addentrano le strategie del marketing. Per quel che riguarda i marchi, regna la stella a tre punte della Mercedes, col significato “supremazia in terra, cielo e mare”.
Altro prodotto che rientra in questa categoria è l’anticalcare Calgon, che ci da’ l’opportunità di analizzare con quanta gradualità ed accuratezza vada trattata la modifica del nome del prodotto, originariamente Calfort. Dapprima sulle vecchie confezioni al nome Calfort, scritto con caratteri grandi, venne associato quello nuovo (che poi nuovo non era, ma è un altro discorso), Calgon, più piccolo.
A seguire campagne pubblicitarie dove veniva proprio evidenziato il cambio di nome, fino alle nuove confezioni con Calgon in grande e Calfort, che presto scomparirà, in piccolo. Lo stesso di quanto avvenuto nel passaggio da SIP a Telecom, da Omnitel a Vodafone. Quando il cliente compra, compra quel che conosce perché lega il nome alla qualità del prodotto, quando viene modificato il nome, al cliente sorgono sempre dei dubbi sulla qualità e sull’autenticità del prodotto.
Aggiungiamo a questa sintetica carrellata le aziende che scelgono il proprio nome, inventandolo di sana pianta o con un mix tra moderno ed antico, proprio e prestato, comunque non immediatamente riconducibile alla natura del prodotto né al suo utilizzo.
Inserirsi sul mercato, per queste aziende, è più difficile agli inizi ma, una volta penetrato il proprio target, riescono a radicarsi con tenuta maggiore nella propria nicchia di acquirenti.
Il nome Sony (elettronica) nasce dall’incrocio tra il latino “sonus” e l’inglese “sunny” che in giapponese suona come l’espressione utilizzata per “ragazzi brillanti”, Google nasce dal termine googol che indica il numero rappresentato dall’1 seguito da 100 zeri (a voler significare la profondità della ricerca legata al numero di lemmi trovati); tali significati incidono anche nella realizzazione dei marchi, quello dell’Audi, ad esempio, dove i quattro cerchi non rappresentano le quattro ruote dell’automobile bensì la fusione delle quattro case automobilistiche che diedero vita al marchio.
Chiudiamo col marchio più esemplificativo: Apple.
In origine, il marchio della compagnia fondata dai “due Steve” era qualcosa di totalmente inadatto al mercato, al prodotto, a tutto. Il nome Apple prende origine dalla “mela” che cadendo sulla testa di Sir. Isaac Newton fece balenare al fisico la teoria dei gravi. Illuminazione che, per la Apple, coincise col rendere i Computer dei PC, abbordabili non solo nel prezzo ma anche nelle dimensioni. Il logo originario riproduceva Sir. Isaac Newton intento a leggere un libro appoggiato ad un melo, con tanto di citazione di Wordsworth lungo i bordi. Immaginate una cosa simile su di un computer? No, e giustamente.
Il tutto venne semplificato, solo la mela, originariamente integra, poi, dallo slogan “taking a bite of the Apple” (dove “bite”, morso, è pronunciato nello stesso modo di “byte”, l’unità di misura delle informazioni digitali) si decise di modificare ulteriormente il logo, aggiungendo un morso che rendesse la mela meno simile ad un pomodoro. Il marchio Apple spopolò anche per le sue tinte multicolori che tanto costarono ma anche tanto resero in termini di visibilità, perfette per una generazione molto legata alla policromia come quella di fine anni 80 inizio 90.
Per render conto dell’importanza del marchio, e del marchio Apple, basta citare un’agenzia economica che stima l’attuale valore della “mela di Steve Jobs” in circa 15,443 miliardi di dollari, miliardi. E’ interessante notare come il marchio Apple sia solo il 20° mondiale in termini di valore: terzo Microsoft (dove la finestra colorata del logo indica l’innovazione portata dall’azienda, ovvero la navigazione a finestre), secondo IBM e primo Coca Cola, con un valore stimato di 68,7 miliardi di dollari.
Posto che il fatturato annuo della Coca – Cola si aggira sui 6 miliardi di dollari, cosa vale di più, il marchio od il prodotto?
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